Le comunità etniche presenti nelle diverse realtà diocesane paiono piuttosto vicine o contigue più che unite. Lo si vede nel corso della Festa dei popoli, ormai tradizionale appuntamento di molte diocesi, ove, appunto, le comunità vivono la loro festa l’una accanto all’altra, senza reciproche interazioni. Manca per lo più un contatto organico con la realtà parrocchiale. Pur dovendosi portare avanti una pastorale mirata nei confronti delle comunità etniche, occorre evitare il rischio che esse divengano comunità chiuse, una sorta di chiese parallele, favorendo piuttosto percorsi di inclusione ecclesiale che salvaguardino l’unità e la differenza, l’identità e l’alterità, evitando omologazioni e qualunquismi.Vi sono comunità che mostrano un’identità cattolica piuttosto labile; altre hanno una composizione prevalentemente femminile ,essendo formate per lo più da “badanti” dei Paesi dell’Est europeo; altre ancora si sono inserite bene nelle società di accoglienza. In generale l’inserimento dei bambini e delle seconde generazioni non presenta problemi, al punto tale che per questi soggetti la funzione dei cappellani etnici non è avvertita come indispensabile. Ogni comunità richiede un approccio pastorale a seconda dello stato in cui si trova e delle risorse di cui dispone. In tutti i casi l’azione pastorale specifica non deve situarsi come attività speciale verso l’una o l’altra comunità ma come un ulteriore stimolo a diventare Chiesa. Viene sottolineata l’importanza della confessione sacramentale nelle comunità cristiane non autoctone e la necessità che al loro interno si dedichi tempo per l’altro da parte dei presbiteri assegnati alla loro cura pastorale. Importante è anche promuovere incontri di riflessione sulla Parola di Dio e di catechesi per l’accompagnamento spirituale degli immigrati cattolici. La preoccupazione dev’essere non solo quella di difendere negli immigrati una fede che rischia di smarrirsi a causa della lontananza dal proprio Paese d’origine (dove spesso le comunità ecclesiali sono più vive), ma anche quella di rafforzarla in modo da scongiurare il pericolo di defezioni verso altre confessioni religiose, che offrono senso di appartenenza e vicinanza , come ad esempio gli evangelici pentecostali. Si afferma che la nomina di presbiteri per la pastorale specifica di comunità non autoctone è sicuramente utile, tanto più se si tratta di presbiteri che condividono non solo la lingua ma anche la cultura delle comunità immigrate. In mancanza di presbiteri originari dei luoghi di provenienza delle comunità immigrate giovano anche le nomine di presbiteri con esperienza in terra di missione (religiosi di ordini missionari, sacerdoti diocesani fidei donum) che conoscono la lingua delle comunità immigrate. Nell’uno e nell’altro caso non va trascurata l’opportunità di puntare anche su laici appartenenti alla nazione o etnia degli immigrati che affianchino il sacerdote referente nella sua azione pastorale. In alcuni casi è stata rilevata la difficoltà che alcuni presbiteri di riferimento delle comunità etniche incontrano nel lavoro quotidiano, specie nei rapporti con i parroci. Si è osservato che le difficoltà e le incomprensioni nuocciono al lavoro pastorale. Esse, pertanto, andrebbero superate con la pazienza e la buona volontà di tutti. Cappellani etnici e parroci territoriali devono evitare di entrare in concorrenza.